Robot che «fanno» riabilitazione

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Robot che «fanno» riabilitazione (sotto l’occhio attento del terapista)

di Ruggiero Corcella

Hannes , la protesi robotica sviluppata da Iit in collaborazione con Inail

I dispositivi «smart» hanno trovato finora applicazione nel recupero funzionale in patologie neurologiche e ortopediche che compromettono il movimento e l’equilibrio

Sollevano, assistono, correggono, in alcuni casi lavorano al nostro posto oppure sostituiscono del tutto alcune funzioni o addirittura parti del corpo umano come nel caso delle protesi bioniche. I robot e più in generale i dispositivi intelligenti destinati alla riabilitazione hanno lasciato i laboratori di ricerca, sono ormai entrati nei percorsi di cura e il loro utilizzo si sta diffondendo sempre di più. Con un forte entusiasmo da parte dei pazienti – complice forse il «momento robotico», parafrasando la sociologa Sherry Turkle, cioè di apertura quasi empatica verso le macchine che la società sta vivendo -, e sentimenti contrastanti invece fra clinici e fisioterapisti, soprattutto in Italia.

Un piccolo esercito

Partiamo da qualche dato. Difficile dire con precisione quanti sistemi robotici riabilitativi siano presenti nel mondo. Secondo le stime dell’International federation of robotics nel 2020 se ne sono vendute 12mila unità e nel 2023 si raggiungerà quota 26milaIn Italia potrebbero essercene in circolazione circa 250, ma non si tratta di cifre ufficiali. «Gli ospedali di neuroriabilitazione sono tra i principali utilizzatori di questi dispositivi. Basti pensare che, in Italia, abbiamo un quarto dei 100 o poco più esemplari del robot più complesso (circa 300mila euro), prodotto per gli arti inferiori» racconta Giovanni Morone, medico fisiatra, ricercatore del Laboratorio Clinico di Neuroriabilitazione sperimentale dell’Irccs Santa Lucia di Roma. L’offerta è abbastanza diversificata. «Oggi sono disponibili robot riabilitativi che sono in grado di affiancare il terapista durante i trattamenti sia dell’arto superiore sia inferiore. Questi robot movimentano l’arto del paziente, prendendolo dalla sua estremità oppure abbracciando tutto l’arto con una struttura apposita che guida il movimento delle articolazioni» spiega l’ingegner Ivan Snider, responsabile di Polo dell’Irccs Medea di Bosisio Parini, sezione scientifica de La Nostra Famiglia (Lecco) dove ogni anno si eseguono 2mila trattamenti di riabilitazione robotica e in realtà aumentata e virtuale collegati a progetti di ricerca.

I campi di applicazione

«Ogni tecnologia può essere vista come interfaccia neurale rilevante per la possibilità di interazione che va a determinare a vario livello (personale, sociale), con caratteristiche peculiari di precisione, rapidità, molteplicità di effetti», scrive sulla rivista MR Franco Molteni, direttore del Dipartimento di riabilitazione specialistica, ospedale Valduce di Como (sede Villa Beretta in provincia di Lecco). E propone una classificazione in: «sistemi per l’attuazione del movimento (esoscheletri, robot); sistemi per l’interazione esperienziale (realtà virtuale); sistemi per la comunicazione interattiva (tele riabilitazione); sistemi per la rilevazione della mobilità/ comportamenti sociali (contapassi); sistemi per telecomunicazione/telepresenza (teleconsulto; video-comunicazione). «Grazie alla miniaturizzazione delle componenti elettroniche e meccaniche e all’utilizzo di nuovi materiali, accanto ai robot riabilitativi sono comparsi gli esoscheletri, strutture indossabili e utilizzabili dal paziente a scopo sia riabilitativo sia assistivo. Alcuni esoscheletri ad esempio, permettono a pazienti tetraplegici di assumere una posizione eretta e di camminare in autonomia». La riabilitazione con i robot ha trovato applicazione nel trattamento sia di patologie neurologiche (esiti da ictus, sclerosi multipla, morbo di Parkinson, malattie del midollo spinale, polineuropatie, paralisi cerebrale infantile, esiti di poliomielite) sia ortopediche che compromettono il cammino, il movimento degli arti superiori o l’equilibrio.

L’interazione tra uomini e macchine

Pazienti e terapisti: come interagiscono con le macchine e tra loro? «Per qualunque persona, l’idea di affidarsi alle mani di un robot genera qualche inquietudine», risponde Ivan Snider, responsabile di Polo dell’Irccs Medea di Bosisio Parini. «D’altro canto un paziente si sente spinto a vincere le paure e i timori che connotano qualunque percorso terapeutico, pur di ottenere qualche beneficio. Se si parla di robot, poi, l’aspettativa di beneficio è particolarmente elevata, come se i robot e in generale ogni nuova tecnologia avessero proprietà terapeutiche straordinarie». Per il personale sanitario invece l’introduzione di questi dispositivi di primo acchito provoca «diffidenza e timore, la sensazione che una macchina possa prima o poi sostituirlo sul lavoro». aggiunge Snider. L’Irccs Medea coordina il progetto di ricerca europeo «MindBot», finanziato con quasi 4milioni di euro nell’ambito del programma Horizon 2020 che ha proprio l’obiettivo di capire quali siano le reazioni e le emozioni di un lavoratore che debba interagire con un «collaboratore» robotizzato. Il progetto prevede la realizzazione di un «cobot», un automa appunto che si accorge dello stato di stress del lavoratore e modifica la sua interazione con l’uomo per metterlo più a suo agio. Capisce inoltre quando è il momento di rallentare e prendersi una pausa o quando invece si può accelerare il lavoro.

Le prove di efficacia

Ma quali sono stati i risultati finora ottenuti? Quello della reale portata di questi nuovi strumenti è uno degli argomenti più dibattuti. «Prove di efficacia ne esistono, ma solo in alcune tipologie di pazienti» puntualizza Morone. Per quanto riguarda i danni da ictus, ad esempio, studi multicentrici tra i quali anche uno condotto di recente dalla Fondazione Don Gnocchi, hanno dimostrato che la robotica può migliorare anche alcuni aspetti cognitivi oltre che motori del paziente. «I risultati scientifici sono sicuramente incoraggianti. È importante però sottolineare come non ci sia un consenso circa la superiorità della riabilitazione robotica rispetto alla riabilitazione tradizionale (o viceversa), ma possiamo considerarle di pari efficacia dal punto di vista del recupero motorio», precisa Emilio Trigili ricercatore senior dell’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. «Tuttavia, le tecnologie robotiche possiedono dei vantaggi, in particolare per quanto riguarda la possibilità di ottenere misure quantitative durante il corso della terapia (ad esempio la portata, la velocità o la fluidità del movimento, le forze applicate dal paziente), per monitorare in modo più preciso i progressi del paziente personalizzare il trattamento», aggiunge l’esperto.

Livelli essenziali di assistenza

Qui si apre un’altra questione. «La riabilitazione robotica è parte integrale del trattamento del paziente», rimarca Irene Aprile direttore del Dipartimento riabilitazione neuromotoria della Fondazione Don Gnocchi dove 11 dei suoi 28 centri sono attrezzati con le nuove tecnologie e dal 2015 sono stati effettuati 75mila trattamenti. La revisione normativa sui Livelli essenziali di assistenza del 2018 ha inserito queste tecnologie nel nomenclatore delle prestazioni specialistiche riabilitative erogabili dal Servizio sanitario nazionale. Per la precisione, nel codice 93.11.G: «Rieducazione motoria mediante apparecchi di assistenza robotizzata ad alta tecnologia. Rieducazione motoria di gravi patologie secondarie a lesioni del Sistema nervoso centrale, con esclusione delle patologie neurodegenerative. Per seduta di 45 minuti. Ciclo di 10 sedute».

Etichetta e contenuto

«L’etichetta c’è,dietro però manca tutto il resto: indicazioni specifiche soprattutto da un punto di vista economico. Le tariffe non sono state stabilite. Quindi in pratica se un cittadino vuole la riabilitazione robotica in regime ambulatoriale può farla solo nei centri che si sobbarcano questo tipo di intervento senza essere remunerati più degli interventi tradizionali» dice Paolo Boldrini, past president della Società italiana di medicina fisica e riabilitativa (Simfer). Lo stesso vale per l’uso di questi dispositivi per le persone ricoverate presso le strutture riabilitative; allo stato attuale non viene riconosciuta nessuna valorizzazione specifica. «Siamo così indietro che la prestazione robotica figura soltanto in quattro regioni. Nel Lazio è fra le prestazioni che devono essere specificate nel diario riabilitativo dei pazienti che rientrano nella riabilitazione post-acuzie e estensiva . Puglia e Lombardia indicano , rispettivamente per i pazienti in stato vegetativo o di minima coscienza e per i pazienti sottoposti a riabilitazione intensiva ed estensiva, dispositivi robotici tra i criteri tecnologici di accreditamento. Il Piemonte ha una tariffa leggermente maggiorata per le prestazioni definite “con sistemi sofisticati”, però devono essere sempre prescritte da un fisiatra del sistema sanitario. «Quindi siamo lontani dall’avere una tariffa che in qualche modo tenga conto anche dell’impegno economico di cui le aziende e le strutture devono farsi carico per fronteggiare e dare questa opportunità ai pazienti», conclude Aprile.

Stabilire le «regole del gioco»

Nel campo della terapia riabilitativa robotica regna una certa confusione. «Medici e fisioterapisti sono un po’ disorientati dalla grande diffusione di questi dispositivisenza che però siano accompagnati da indicazioni cliniche più precise. Fa eccezione la neuroriabilitazione ospedaliera in cui, ormai da molti anni, si raccolgono dati e viene fatta ricerca su questo tipo di ausili», sintetizza Giovanni Morone che è anche consigliere nazionale della Società italiana neuroriabilitazione (Sirn) . Per dare una prima risposta ai problemi di un settore ancora in fase di sviluppo, Simfer (Società italiana di medicina fisica e riabilitativa, Donatella Bonaiuti e Paolo Boldrini) e Sirn (Stefano Mazzoleni e Federico Posteraro) e insieme all’Istituto Superiore di Sanità (Mauro Grigioni) hanno lanciato una Conferenza di consenso. Ed ecco il punto di partenza dell’analisi: manca «un quadro complessivo e condiviso di riferimento, che possa chiarire i molti diversi aspetti di cui tener conto perché queste tecnologie siano integrate nell’offerta riabilitativa in modo efficace, stabile, sicuro ed accettabile da parte di tutti i diversi soggetti coinvolti», scrivono i promotori.

I gruppi

Ai lavori hanno partecipato nove gruppi di studio che hanno coinvolto circa 200 persone tra clinici, bioingegneri, ricercatori, rappresentanti di persone con disabilità, esponenti del mondo della sanità e politici, imprese di settore, esperti di area economica, etico-giuridica e di Health technology assessment. Gli obiettivi «La Conferenza ha proprio lo scopo di creare un primo consenso, tanto è vero che abbiamo usato il termine di consensus statement, cioè di dichiarazioni di consenso – formulate da un panel multidisciplinare di esperti , nelle conclusioni che saranno emanate entro l’estate. Abbiamo evitato quelli più impegnativi e vincolanti di “raccomandazioni o linee guida”, perché non è possibile formularle adesso con una certezza ragionevole», dice Paolo Boldrini che è anche segretario generale della Società europea di medicina fisica e riabilitativa (Esprm). Sono state individuati sei tematiche: definizioni e criteri di classificazione dei dispositivi; indicazioni sul loro impiego clinico nelle più frequenti condizioni disabilitanti di origine neurologica; modelli teorici di riferimento per lo sviluppo e l’utilizzo clinico; contesti organizzativi appropriati per il loro impiego; aspetti normativi; implicazioni sociali, etiche e giuridiche. «Vogliamo almeno cominciare a delimitare un terreno di gioco comune con criteri chiari e condivisi per far tesoro delle molte esperienze già presenti», spiega Boldrini. Un lavoro impegnativo è stato quello di raccogliere tutte le prove disponibili sulla maggiore o minore efficacia di questi interventi in varie condizioni. «Sono state esaminate migliaia di pubblicazioni della letteratura scientifica mondiale sino al 2019 e soprattutto raccolto materiale sulle persone affette da ictus e con lesione del midollo spinale. Si è evidenziato che le prove di efficacia sono certamente incoraggianti, ma non ancora al punto da consentirci di stabilire delle indicazioni precise e cogenti», dice Boldrini.

28 agosto 2021 (modifica il 29 agosto 2021 | 14:30)

fonte: www.corriere.it/salute